È ben noto come ai molti studi sulle opere di Dante si siano, già da tempo, affiancati approcci ermeneutici non ortodossi, molti anche di stampo esoterico.
L’operazione ha riscosso notevole successo, a causa dell’intrecciarsi di svariati fattori, come l’osservazione delle dichiarazioni dello stesso Dante, il quale in più punti delle sue opere incoraggia una lettura della Commedia che si spinga oltre il solo significato letterale.
Si considerino, a titolo d’esempio, la celebre epistola XIII a Cangrande della Scala e il canto IX dell’Inferno.
Nella prima, volendo esplicitamente fornire a Cangrande un metodo di approccio all’opera, Dante spiega:
Per chiarire quanto stiamo per dire, occorre sapere che non è uno solo il senso di quest’opera: anzi, essa può essere definita polisensa, ossia dotata di più significati. Infatti, il primo significato è quello ricavato da una lettura alla lettera; un altro è prodotto da una lettura che va al significato profondo. Il primo si definisce significato letterale, il secondo, di tipo allegorico, morale oppure anagogico. E tale modo di procedere, perché risulti più chiaro, può essere analizzato da questi versi: «Durante l’esodo di Israele dall’Egitto, la casa di Giacobbe si staccò da un popolo straniero, la Giudea divenne un santuario e Israele il suo dominio». Se osserviamo solamente il significato letterale, questi versi appaiono riferiti all’esodo del popolo di Israele dall’Egitto, al tempo di Mosè; ma se osserviamo il significato allegorico, il significato si sposta sulla nostra redenzione ad opera di Cristo. Se guardiamo al senso morale, cogliamo la conversione dell’anima dal lutto miserabile del peccato alla Grazia; il senso anagogico indica, infine, la liberazione dell’anima santa dalla servitù di questa corruzione terrena, verso la libertà della gloria eterna. E benché questi significati mistici siano chiamati con denominazioni diverse, in generale tutti possono essere chiamati allegorici, perché sono traslati dal senso letterale o narrativo. Infatti allegoria viene ricavata dal greco alleon che, in latino, si pronuncia alienum, vale a dire diverso.[1]
E ancora, nell’Inferno: «O voi ch’avete li ’nteletti sani / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versi strani».[2]
Accanto a quest’invito a spingersi oltre l’immediato significato degli scritti, altre spinte si esercitano su coloro che hanno tutt’ora giustificano una lettura di Dante che vada oltre le classiche interpretazioni ortodosse.
Maria Corti, ad esempio, sottolinea lo stretto legame tra l’opera dantesca e l’influenza islamica nell’Europa del Duecento.[3] Un’Europa dominata da figure titaniche come quelle di Federico II o di Alfonso X il Savio: durante questa particolare fase del medioevo, si realizza uno scambio culturale profondo con l’Oriente, all’interno del quale il mondo arabo filtra per l’Occidente la cultura greca.
Quando due culture sono in stretto contatto, i vocaboli, le idee, i pensieri, i concetti di una cultura passano ovviamente all’altra e quindi non si riesce più a trovare la fonte diretta, perché quando un’espressione comincia a circolare non si sa più chi l’abbia creata o chi l’abbia messa in circolo. Questo è ciò che avviene per Dante.[4]
Si tratta di un meccanismo di cui è esemplare l’ideazione delle Colonne d’Ercole.[5]
In Dante ci sono molti arabismi, che gli vengono per questo fenomeno dall’intertestualità. Non sono degli arabismi che Dante abbia appreso da un particolare libro. Un fenomeno che si può esemplificare subito è quello che ci dà l’episodio di Ulisse. In quest’occasione Dante ci dice come Ulisse giunge alle colonne d’Ercole:”Là dove Ercole segnò i suoi riguardi a ciò che l’uom più oltre non si metta”, cioè dove Ercole stesso ha messo il confine non si va. Dove sono le colonne d’Ercole? Sono nello stretto di Gibilterra, quindi lo stretto di Gibilterra, secondo questo concetto, era chiuso. Non si poteva uscire dallo stretto di Gibilterra. Ora, questa è una tradizione che è nata con gli Arabi (…) per poter meglio dominare il commercio marino nel Mediterraneo.[6]
Il rapporto con il mondo arabo risulta fondamentale per coloro che, nelle opere dantesche, intravedono l’esibizione di alcuni tra quei simboli e quelle idee che le tradizioni esoteriche hanno voluto leggere come i messaggi celati di un Iniziato.
Le analogie fra molti luoghi della Commedia e alcuni elementi chiave della letteratura spirituale islamica sono ormai dati generalmente accettati.
Lo storico e arabista Miguel Asín Palacios «ha chiaramente fatto notare le similitudini che vi sono tra la dottrina di Ibn al ‘Arabî, considerato il più grande dei maestri dell’esoterismo islamico, morto nel 1240, e quella espressa nell’opera di Dante,[7] e altri studiosi hanno mostrato come la poesia degli stilnovisti utilizzi gli stessi strumenti letterari di quella araba».[8]
Dunque, secondo alcuni paladini della lettura eterodossa, non vi è solo un Dante esoterista da riscoprire ma un adepto alla maniera orientale. Un Iniziato condotto dal Virgilio-maestro spirituale, che accompagna l’aspirante sul cammino da lui stesso compiuto, come nella dottrina del tasawwuf – il Sufismo.
Naturalmente, se così fosse, rimane il problema di come Dante abbia avuto accesso a fonti arabe, in traduzione.
Sempre Maria Corti punta l’attenzione sul Libro della scala di Maometto e sulla Scuola di Toledo: «[…] alla Scuola di Toledo c’era un traduttore, che era Bonaventura da Siena (cioè un toscano), che faceva anche il notaio per re Alfonso. Ora, questi tradusse un libro che fu composto in arabo nell’ottavo secolo […]» quest’opera era diffusa e nota anche a Brunetto Latini, il quale «non solo stette molto nella Castiglia (a Oviedo), ma fu amico di re Alfonso X e, guarda caso, avvicinò alla corte di re Alfonso X proprio il traduttore di quest’opera: Bonaventura da Siena».
L’eterodossia di Dante è un tema che torna ciclicamente, anche per il frequente riaccendersi di discussioni su aspetti obiettivamente controversi del suo pensiero teologico e filosofico. Inevitabilmente, si presentano numerose le posizioni interpretative anche di stampo mistico-esoterico.
Ad aprire questo filone è soprattutto l’Ottocento italiano, secolo del revival delle tradizioni esoterico-iniziatiche, del patriottismo, dei grandi ideali del Romanticismo e naturalmente del Risorgimento.
Non può essere dimenticato, a tal proposito, Gabriele Rossetti, che fu poeta e intellettuale profondamente influenzato dal giacobinismo francese.
Rossetti s’iscrisse alla Carboneria, appoggiò i moti del 1820 e pagò con l’esilio – ricompensato dalla cattedra di Lettere, che tenne fino al 1847 presso il King’s College di Londra.
Nel 1826 inizia quella che sarà l’incompiuta pubblicazione di un progetto critico sulla Commedia, nel quale per la prima volta si evidenzia la presenza di messaggi nascosti di carattere politico e teologico: Dante avrebbe fatto parte di una cerchia ristretta, una sorta di setta d’intellettuali – i Fedeli d’Amore – il cui fronte politico si esplicitava in una devozione alla causa imperiale, mentre quello teologico e spirituale si nutriva di pitagorismo e platonismo.
Inizialmente simpatizzante del Sommo Poeta, a causa della convinta esegesi ermetica, Rossetti finì per disprezzarne l’opera ritenendola un’infame offesa al Cristianesimo.
L’immagine di un Dante eretico arriva fino in Francia, dove è accolta dal cattolico Eugène Aroux che, nel 1853, a Parigi, pubblica l’opera Dante hérétique, révolutionnaire et socialiste. Révélations d’un catholique sur le Moyen Âge.
Aroux giudica severamente il Poeta, ritenendolo parte di una cerchia settarica di natura anticlericale e arriva a definire Dante un «ateo, uno di quegli uomini senza fede e senza onore che sognano e tramano rivoluzioni, per innalzare sulle rovine insanguinate l’edificio della loro fortuna».[9]
Tale nemico della Chiesa avrebbe quindi composto le sue opere secondo un linguaggio chiave, atto a conservare un messaggio filosofico e politico di carattere elitario e segreto?
Alla luce del disvelamento dei codici segreti, che l’Aroux riteneva di aver operato, svariati elementi e personaggi della Commedia assumerebbero un pericoloso significato eretico, opposto a quello generalmente noto e accettato.
Il lavoro di Aroux dev’essere compreso alla luce degli eventi politici del tempo e quindi valutato non senza tener conto dei riverberi ideologici che l’una o l’altra tesi implicano ancora oggi.
Del resto, la severissima condanna subita in vita da Dante potrebbe sostenere un’interpretazione eretica dello stesso: l’astio con Bonifacio VIII, la simpatia per gli Albigesi, l’Islam…
Quando Dante è eterodosso è naturalmente affiliato a un gruppo: quale? Quello dei Fedeli d’Amore, che ora si nutre di suggestioni derivate dallo Gnosticismo, ora appoggia i Catari; ora si configura come filoislamico e ora, addirittura, appartiene a espressioni più vaste – e più tarde – quali quelle rappresentate dalla tradizione della Rosa e della Croce o persino della Massoneria.
Queste molte e diverse attribuzioni – ancora oggi, spesso, trattate con una certa incuranza delle differenze – godono di ampia accoglienza presso gli ambienti anticlericali, i quali a loro volta hanno letto nell’eterodossia dantesca aspetti ideologici tra i più vari, persino filosocialisti.
Cultore di Dante fu anche Giovanni Pascoli. Come le opere di Aroux e Rossetti, anche l’esegesi pascoliana non merita di essere frettolosamente liquidata.
Secondo il poeta, «l’unità strutturale della Commedia, rifratta in mille rispondenze dottrinali nei tre regni, e l’intenzione criptografica di Dante, che avrebbe chiuso il proprio sistema mistico in un piano preordinato di segni»[10] implicherebbe l’obbligo per la critica di svelare il linguaggio segreto, di trovare la vera chiave atta ad aprire lo scrigno dei tesori che Dante racchiuse nei «versi strani».
L’esegesi del Pascoli fu fatta oggetto di una critica feroce, anche a causa dell’immediata associazione tra questa e la corrente interpretativa di stampo esoterico-massonica del citato Rossetti.
Nell’accostamento delle sue conclusioni alle realtà esoteriche, Pascoli rigettò l’aspetto del settarismo politico ma difese quello squisitamente mistico e iniziatico: Pascoli, del resto, fu un massone.[11]
L’esegesi pascoliana ruota attorno all’idea che Dante avrebbe trasmesso il proprio pensiero mediante un coerente sistema di segni da decriptare. Simmetria; mistica del numero; accesso alla vita contemplativa mediante l’esercizio della virtù: un’esegesi di carattere squisitamente mistico-iniziatico.
Il primo, compiuto punto fermo nell’intricato cammino dell’esegesi eterodossa si riscontra comunque nel titanico lavoro di Luigi Valli, «personaggio chiave per l’esoterismo piuttosto che dell’esoterismo, posto che non si considerò mai veramente parte dell’ambiente esoterico, con cui pure ebbe molteplici relazioni».[12]
Intellettuale e discepolo di Pascoli, fieramente anticlericale ma severissimo critico dell’organizzazione massonica, vide in Dante un segreto propugnatore della dottrina della Croce e dell’Aquila, ovvero dell’ideale unione dell’Impero e della Chiesa nel progetto della Salvezza.
Una visione complessa ma intimamente coerente, entro la quale esercita un’importanza determinante il gruppo – “esoterico” latu sensu – dei Fedeli d’Amore, depositari di una grande verità originaria che si stende oltre le divisioni religiose.
Valli fu un uomo di ampia cultura che aveva coltivato l’interesse per l’esegesi dantesca fin dagli studi liceali, vale a dire fin dall’incontro con Pascoli.
Attraverso tale sodalizio, Valli entrò a pieno titolo tra gli autori che si collocavano lungo quel sentiero interpretativo misterico ed eterodosso di Dante che risaliva appunto al Rossetti ma che era stato in qualche modo aperto già da Ugo Foscolo.
Ho scritto in fronte al libro i nomi dei tre poeti nobilissimi che con le loro rivelazioni aprirono la via a queste mie indagini sul pensiero di Dante. Li ho scritti non solo per esprimere la mia riverenza per la loro grande opera, ma anche per affermare che in questo libro si prosegue una tradizione di studi ormai più che centenaria, la quale ha avuto la sua continuità, la sua lenta maturazione e il suo logico sviluppo, quantunque una critica che si dà pomposamente, per quanto arbitrariamente, il titolo di «positiva», usi l’artificio di raffigurare coloro che hanno seguìto il nostro indirizzo come altrettanti fantasticatori isolati. Nel 1825 Ugo Foscolo, ponendo col suo genio su nuove basi l’interpretazione di Dante, gettati da parte i vecchi commenti, affermava limpidamente lo stretto legame fra la Divina Commedia e la Monarchia: affermava che la Commedia è pervasa da un profondo spirito rinnovatore politico e religioso, che ha un segreto contenuto mistico e profetico, che essa è una grande profezia esposta in un sistema occulto.[13]
Foscolo si era dedicato all’interpretazione dantesca soprattutto a partire dal 1816. Nel Discorso sul testo del poema di Dante, del 1825, interpreta la Commedia come un inno di rinnovamento religioso di cui Dante è una sorta di Profeta – «si professa riformatore per diritto della sua Missione Apostolica esposta nel Discorso sul testo» – che si erge a difesa di una religione originaria e intatta dalla corruzione.
E alla Cantica terza era da premettersi un Discorso sullo stato della Chiesa d’allora, della quale Dante si professa riformatore per diritto della sua Missione Apostolica, esposta nel Discorso sul testo. Osservando come la religione fosse sentita e praticata a quei giorni; quanto riuscisse utile o dannosa all’Italia; quanto e perché Dante volesse rivocarla a’ suoi primi istituti, avrei forse indotto taluni a percorrere d’allora in qua colla loro memoria i vantaggi che la loro misera patria derivò dalla Chiesa.[14]
Ancora:
La Commedia di Dante è immedesimata nella patria, nella religione, nella filosofia, nelle passioni, nell’indole dell’autore; e nel passato e nel presente e nell’avvenire de’ tempi in che visse […] era secolo eroico; e molti de’ suoi lineamenti sono alle volte fantastici; e dove hanno del rozzo, furono trascurati […]; narrazioni e tradizioni e opinioni si sono oggimai riaccumulate, e confuse e spinose di dubbj; e quando accolte, e quando smentite e neglette; e tuttavia richiamate alla loro volta. Pur tutte, tale più tale meno, sviarono la lingua, la poesia e la interpretazione della Commedia dalle intenzioni del suo creatore; tanto più quanto il popolo e i tempi a’ quali intendeva d’apparecchiarla, non che potere mai dirizzarsi alle mète additate in quell’Opera, furono costretti a dissimularle […].[15]
Foscolo aveva ideato una sua edizione della Commedia, in cinque volumi, ma di questo ambizioso progetto lascia appunto solo il Discorso, che fu stampato a Londra da William Pickering: il poeta era pienamente consapevole del fatto che la sua prospettiva d’analisi rappresentasse una novità concorrenziale con l’esegesi vaticana, nell’ambito della quale estrema importanza era data all’immagine di un Dante ricettore della propria missione, senza intermediari, da parte di Dio stesso.
[…] quant’egli sino dalla prima cantica non cessò mai di dire in più modi – Ch’ei percorreva la valle dolorosa dell’Inferno e il monte del Purgatorio [Inf., IV, 8; Purg., XXXII, 99-103; Par., XXVII, 138.], e a considerare la storia degli errori delle colpe e delle calamità della TERRA; e andava a interrogare la verità della sapienza eterna nel CIELO; a fine di santificare i costumi, le leggi, e la filosofia, e ridurre a concordia il popolo cristiano, sacrificato nelle guerre civili all’ambizione avidissima de’ Pontefici [Par., XXVII, 46 – seg.]. – Poco innanzi, e non molto dopo quel verso, ei risponde agli Apostoli intorno alla Fede, alla Speranza, e alla Carità. Due critici eloquenti non vedendo a che mirino que’ nuovi quesiti, l’uno ne ride [Merian, verso la fine della sua Memoria intorno al poema, Mém. de l’Acad. de Berlin, an. 1780-84.]; l’altro gli ascrive alla compiacenza del poeta, di entrare nelle strette della dialettica, e vedere rinovati in Cielo i trionfi ch’ei riportò nelle tesi teologiche delle scuole [Ginguené, Hist. Litt. d’It., II, pag. 233.]. Gli altri tutti, a darne ragione, traducono dal contesto parole necessitose appunto della stessa ragione – Fu esaminato dagli Apostoli affinch’egli esaltasse la fede verace [Vedi adunate dagli Editori Padovani le chiose a’ versi. / Per la verace fede, a gloriarla / Di lei parlare è buon ch’a lui arrivi – / Par., XXIV, 43-45.] – Or non aveva egli veduto pur dianzi il trionfo e quell’umanità deificata di Cristo [Par., XXII.], ch’essi furono preordinati a predicare, perché soli l’aveano veduta [Act. Apost., X, 40-42.]? E il confermare nella fede de’ misterj un cristiano che n’aveva fatto esperienza oculare, non sarebbe ella stata ridicola assurdità negli Apostoli? Che s’altri mai dimandasse tanta certezza a’ dottori in divinità, sarebbe mandato, o ch’io m’inganno, a informarsene al Santo Ufficio. Né Dante trascura di dire, e ridicelo appunto allora, come a’ Beati che miravano in Dio le cose tutte quante [Par., XXIV, 41, 42; XXV, 53, 54, 58-59 e altrove.], non occorreva d’udire il vero per via d’interrogazioni. Provocavano risposte a corroborarlo nella fiducia ch’ei possedeva, quanto mai lume di fede e vigor di speranza e amore divino e abborrimento all’iniquità richiedevansi alla vocazione di preservare la religione dagli adulterj della Chiesa Romana [Par., IX, 142.].[16]
Poco dopo Foscolo, a partire dal 1847, si leva un’altra voce a difesa di un’interpretazione eterodossa di Dante, all’insegna di un rinnovamento che transitasse dall’intervento dell’Impero quale elemento necessario alla Chiesa per l’edificazione di una nuova Salvezza. È la voce del politico e letterato Michelangelo Caetani, che nuovamente pone l’attenzione sul continuo intrecciarsi di funzioni e responsabilità tra la Croce e l’Aquila – la Chiesa e l’Impero – nella grande opera dedicata all’umanità.
Ne Della dottrina che si asconde nell’ottavo e nono canto dell’Inferno, opera pubblicata a Roma nel 1852, Enea è individuato quale «messo celeste».
A tal proposito, scriverà Pascoli:
Che il Poeta [Virgilio] fosse allora aiutato dall’eroe sarebbe, io credo, di per sé probabile molto; se non fosse assolutamente certo, perché il Messo del cielo viene da di qua della porta dell’Inferno (assurdo è pensare che Virgilio intendesse d’alcuno venuto di fuori, che, mentre parlava, egli sentisse già penetrato nell’Inferno. Assurdo, assurdissimo. Virgilio avrebbe de- posto ogni dubbio ed ogni impazienza; e invece li mostrerebbe, dopo, più che mai), dunque dal limbo, perché sol quelli del limbo non son legati da Minos; ed è perciò Enea, perché a Virgilio l’innominato Messo si era offerto, e non gli si poteva offrire se non uno del limbo, non essendo Virgilio uscito dal limbo, o, a ogni modo, non essendo detto che altrove si recasse; e non doveva Virgilio, cercando ciò che, oltre la parola ornata, era mestieri al campar di Dante, rivolgersi ad altri che a guerrieri o eroi, e tra questi, non ad altri che al guerriero ed eroe suo; è Enea, perché, senza scorta (esso che l’ebbe altra volta) scende i cerchi dell’incontinenza di concupiscibile, e Dante l’ha nel Convivio (IV, 26) recato a modello e tipo di stringitore di freno; e perché passa come terra dura la palude dell’incontinenza d’irascibile o di manco di fortezza e magnanimità, ed esso è nel Convivio recato a modello e tipo di movitor di sprone; perché è insomma temperante e forte, tipicamente; è Enea, perché non altri che uno dotato di virtù eroica, in grado supremo, poteva aprir la porta che conduce alla bestialità, che è, secondo Aristotele, il perfetto opposto di detta virtù; perché non altri che un sommamente giusto, poteva schiudere il varco che la malizia o ingiustizia aveva chiuso; è Enea perché è Messo del cielo, e Dante se ne avvede e vuol parlarne a Virgilio cantore o, vorrei dire, evangelista di lui; ed Enea appunto fu eletto da Dio per padre di Roma e del- l’Impero; è Enea, perché mostra qui quegli animi e quel fermo petto, che ad ammonimento della Sibilla, usò nella sua prima discesa; è Enea, perché parla ai diavoli di fata e di Cerbero, e usa altre frasi, udite nella prima discesa; è Enea perché lo spettacolo delle mura rosse e delle Furie è quel medesimo che vide nella sua prima discesa; è Enea perché si ritrova avanti alla reggia di Proserpina o moglie di Dite o regina dell’eterno pianto, personaggio che in nessun altro luogo dell’Inferno è ricordato, e che è ricordato qui per suggerir il nome di lui che «occupò l’adito» di quella reggia nella sua prima discesa; è Enea, perché appunto ha una verghetta in mano, come nella sua prima discesa, e l’usa, con qualche divario ma l’usa ora alla soglia di Dite o della sua moglie, come allora, e con l’effetto di passare sino all’Elisio o purgatorio, come nella prima discesa; è Enea, perché d’Enea la Tragedia che non falla, racconta come l’infallibile Sibilla dicesse che due volte sarebbe galleggiato sullo Stige e due volte avrebbe veduto il Tartaro, il che, secondo l’interpretazione Dantesca, a dar retta all’Eneide, non era successo che una volta, quella volta.[17]
Su questa linea eterodossa e controversa prosegue dunque – seppur in modo diverso – Luigi Valli, che ne La Chiave della Divina Commedia (1925) espone in modo chiaro la necessità da parte di Dante di tramandare, occultandolo, l’ideale dell’unione tra la Croce e l’Aquila per la redenzione e la salvezza dell’Uomo.
È appunto a questa duplice necessità di esposizione e camuffamento del vero che Valli dedica la sua opera, volta a decriptare il linguaggio segreto comune a tutti i Fedeli.
Si tratterebbe di una sorta di gergo che, una volta aperto, svelerebbe l’esistenza di un mondo insospettabile, di alto valore spirituale e iniziatico: un consesso occulto di paladini intellettuali, volti a dar lotta alla corruzione della Chiesa.
Tutta la poesia dei Fedeli sarebbe dunque da rivedere e reinterpretare alla luce di questa lingua segreta: il Cuor Gentile; l’Amore; la Rosa; la Donna; Beatrice… ciascuna di queste immagini si piega alle necessità comunicative di una vasta organizzazione sotterranea volta al rinnovamento spirituale dell’umanità.
«Può far storcere la bocca un pensiero del genere, una concezione così ereticale […]. La stessa Vita Nuova non sarebbe altro che un componimento di carattere dottrinale e iniziatico, indirizzato verso tali concezioni, e lo studioso è inoltre convinto che tale gergo sia stato applicato anche in altre opere contemporanee a quelle dantesche, come i Documenti d’Amore di Francesco da Barberino o L’Acerba, o addirittura certi componimenti petrarcheschi e del Boccaccio» senza contare i «legami esistenti fra l’Alighieri e l’ordine templare e anche fra il poeta e la poesia islamica, in particolare quella mistico-erotica dei Sufi».[18]
Le poesie dei Fedeli d’Amore sono dunque scritte per un gruppo chiuso, serrato in un rapporto strettissimo; seguaci di un amore verso il quale si mostrano gelosi adoratori, «Tutte le poesie più importanti, e specialmente le canzoni, sono licenziate con un monotono ammonimento di andare soltanto ai fedeli d’amore […] e di fuggire invece la gente villana, la gente grossa».[19]
Un amore troppo artificioso e inverosimile – ritiene Valli – non pienamente giustificato da un richiamo agli usi del tempo. Un amore troppo “alto”, inoltre e, in certe opere, palesemente narrato in modo oscuro e incomprensibile, proprio come se i poeti impiegassero sistematicamente un gergo noto solo a una ristretta cerchia, entro la quale le comunicazioni si rendevano attraverso canzoni, poemi e sonetti.
Ne sono esempio diversi autori come Cino da Pistoia, il Barberino e naturalmente Guido Cavalcanti, che in un sonetto, in particolare, sembra sollecitare Dante a indagare sull’effettiva fedeltà di un membro del gruppo: Lapo Gianni.
Se vedi Amore, assai ti priego, Dante,
in parte là ’ve Lapo sia presente,
che non ti gravi di por sì la mente,
che mi riscrivi s’e’ lo chiama amante,
e se la donna li sembla avenante
che si le mostr’ avvinto fortemente;
ché molte fiate così fatta gente
suol per gravezza d’amor far sembiante.
Tu sai che ne la corte là ’ve regna
non vi può servir omo che sia vile
a donna che là entro sia renduta.
Se la soffrenza lo servente aiuta,
può di leggier cognoscer nostro sire,
lo quale porta di merzede insegna.
G. Cavalcanti, Se vedi Amore, assai ti priego, Dante (XIII sec.)
Fedeltà non a una donna, dunque, né a un modello di amore ma ad un vero e proprio modo d’intendere la Sapienza e infine la Chiesa, la società, la Salvezza.
Secondo Valli, il movimento dei Fedeli fu il risultato del confluire di almeno quattro componenti:
1. Una componente filosofica, che muovendo da Averroè «usava rappresentare in figura di una donna l’intelligenza attiva, cioè quell’intelligenza unica universale […]» che conduce l’Uomo alla conoscenza delle supreme «intangibili dai sensi».
2. Una componente mistico-platonica, «la quale da secoli e secoli aveva rappresentato la sapienza che vede Dio come una donna amata».
3. Una componente spirituale, e al tempo stesso politica, che dichiarava la corruzione della Chiesa di Roma.
4. Una tradizione settaria dell’uso del doppio linguaggio, cioè «del discorrere a doppio senso per sfuggire alla gente grossa e più ancora all’autorità nemica, tradizione che, largamente diffusa dal manicheismo in Persia, penetrò naturalmente […]; affine a quella che aveva generato i fedeli d’amore persiani […] e che allo stesso modo, nell’ambiente albigese di Provenza […] penetra nella poesia d’amore nascondendo sotto di essa pensieri mistici settari».
Appare dunque evidente come, per dischiudere la reale interpretazione delle opere di Dante e dei Fedeli d’Amore, sia necessario dotarsi di una sorta di dizionario che prenda in considerazione, se non altro, i termini chiave della poetica e li traduca secondo il vero significato.
Questo è appunto il titanico lavoro che compie il Valli, dal quale trae un gergo intimamente coerente che, applicato a molte opere, pare effettivamente funzionare e ricostruire un panorama sotterraneo vastissimo, “esoterico” o quanto meno non ortodosso, tutto avviluppato attorno a una sorta di organizzazione segreta e strettissima.
Alcuni esempi particolarmente significativi:
Amore
Amor Sapientiae – la “setta”, l’organizzazione e il “Patto Iniziatico”.
Madonna
Intelligenza Attiva: la Santa Sapienza rivelata dal Cristo e trasmessa per via iniziatica ai Fedeli – nuovamente, la “setta”, l’organizzazione.
Morte
Errore o Iniziazione alla nuova Vita.
Donne
Gli Adepti.
Follia
La condizione di non Iniziato.
Fiore
Sapienza Santa.
Fontana
Tradizione iniziatica; l’insegnamento.
Vento / Freddo / Gelo
Chiesa; ciò che si oppone ad Amore.
Pietra
Chiesa corrotta.
Selvaggio / Villano
Il non Iniziato.
Cortese / Gentile
Iniziato; Adepto.
Alla luce di queste ed altre indicazioni, Valli reinterpreta non solo Dante ma l’intera opera dei Fedeli, a partire dal Cavalcanti, che potrebbe esserne stato a lungo il “capo”. E ben si comprende come, attraverso la rigorosa applicazione del dizionario ideato dallo studioso, ben nuovi e stravolgenti significati assumano opere fondamentali, come lo stesso manifesto dei Fedeli d’Amore di Guido Guinizzelli: Al cor gentil rempaira sempre amore.
Al cor gentil rempaira sempre amore
come l’ausello in selva a la verdura;
né fe’ amor anti che gentil core,
né gentil core anti ch’amor, natura:
ch’adesso con’ fu ’l sole,
sì tosto lo splendore fu lucente,
né fu davanti ’l sole;
e prende amore in gentilezza loco
così propïamente
come calore in clarità di foco.
Foco d’amore in gentil cor s’aprende
come vertute in petra prezïosa,
che da la stella valor no i discende
anti che ’l sol la faccia gentil cosa;
poi che n’ha tratto fòre
per sua forza lo sol ciò che li è vile,
stella li dà valore:
così lo cor ch’è fatto da natura
asletto, pur, gentile,
donna a guisa di stella lo ’nnamora.
Amor per tal ragion sta ’n cor gentile
per qual lo foco in cima del doplero:
splendeli al su’ diletto, clar, sottile;
no li stari’ altra guisa, tant’è fero.
Così prava natura
recontra amor come fa l’aigua il foco
caldo, per la freddura.
Amore in gentil cor prende rivera
per suo consimel loco
com’ adamàs del ferro in la minera.
Fere lo sol lo fango tutto ’l giorno:
vile reman, né ’l sol perde calore;
dis’omo alter: - Gentil per sclatta torno;
lui semblo al fango, al sol gentil valore:
ché non dé dar om fé
che gentilezza sia fòr di coraggio
in degnità d’ere’
sed a vertute non ha gentil core,
com’aigua porta raggio
e ’l ciel riten le stelle e lo splendore.
Splende ’n la ’ntelligenzïa del cielo
Deo crïator più che [’n] nostr’occhi ’l sole:
ella intende suo fattor oltra ’l cielo,
e ’l ciel volgiando, a Lui obedir tole;
e con’ segue, al primero,
del giusto Deo beato compimento,
così dar dovria, al vero,
la bella donna, poi che [’n] gli occhi splende
del suo gentil, talento
che mai di lei obedir non si disprende.
Donna, Deo mi dirà: - Che presomisti?
sïando l’alma mia a lui davanti.
- Lo ciel passasti e ’nfin a Me venisti
e desti in vano amor Me per semblanti:
ch’a Me conven le laude
e a la reina del regname degno,
per cui cessa onne fraude.
Dir Li porò: - Tenne d’angel sembianza
che fosse del Tuo regno;
non me fu fallo, s’in lei posi amanza.
G. Guinizzelli, Al cor gentil rempaira sempre amore (XIII sec.)
Numerose sono le opere nelle quali il Valli legge vere e proprie lettere informative tra i Membri della Setta. Si consideri, a titolo d’esempio, il sonetto di Cino da Pistoia Novelle non di veritate Ignude, nel quale l’Adepto, lontano dall’Organizzazione, chiederebbe di averne notizie, soprattutto in ragione dei tempi avversi.
Novelle non di veritate ignude,
quant’esser può lontane sian da gioco,
disio saver, sì ch’i’ non trovo loco,
de la beltà che per dolor si chiude.
A ciò, ti prego, metti tua virtude,
pensando ch’entrerei per te in un foco;
ma svariato t’ha forse non poco
la nova usanza de le genti crude;
sì ch’a me, lasso, il tuo pensier non volte;
però m’oblii, ché memoria non perde
se non quel che non guarda spesse volte.
Ma se del tutto ancor non si disperde,
mandami a dir, mercé ti chiamo molte,
come si dee mutar lo scuro in verde.
I Documenti d’Amore di Francesco da Barberino – contemporaneo di Dante – sarebbero poi un vero e proprio manuale settario, un insegnamento per colui che intende edificare una propria via spirituale lontano dalla Chiesa.
Addirittura, il Valli nota nel suo saggio: «Questo grosso complicatissimo e stranissimo libro […] rivela definitivamente il suo carattere iniziatico e settario» non solo nei mottetti oscuri ma altresì nelle «illustrazioni che, essendo evidentemente simboliche, molte volte esprimono cose che con le parole del testo e del commento non hanno nulla a che vedere».
Compare infatti nell’opera, alla fine, un guerriero con una spada, che afferma:
Io son virgo e guardo sel venisse
Alchun che livro avrisse
E se non fosse cotal cente e detto
Dregli di questa spada per lo petto.
Si tratta di un severo monito diretto a tutti coloro che – profani – avrebbero cercato di suggere dal testo il nettare della Conoscenza Iniziatica? Valli non ha dubbi in merito.
Del resto, lo stesso Barberino chiarisce come la sua donna amata – Costanza – sia una cosa molto «misteriosa», della quale potrà parlare solo in gran segreto.
Anche il fatto che si dica che Costanza veste abiti vedovili è, per Valli, particolarmente significativo, da ricollegare all’espressione «figli della Vedova» e più in generale all’allegoria della Vedova presente in svariate tradizioni iniziatiche dal manicheismo ai giorni nostri.
In ultimo, non vanno trascurate le rigorose analisi compiute dall’autore sulla celeberrima illustrazione del Tractatus amoris et operum eius – glossa al proemio dei Documenti.
Una teoria di quattordici personaggi è sovrastata da una figura nuda d’Amore che, fra rose, cavalcando nei cieli, guarda in basso e scaglia dardi affermando:
Io son Amor in nova forma tracto
e se di sotto di me riguarderete
l’ovre ch’io faccio in figure vedrete.
Una tentazione oggettivamente irresistibile.
Chi sono dunque questi curiosi personaggi? Ancora una volta, Valli propone una accattivante chiave di lettura.
L’iconografia potrebbe essere svolta a partire dalle simmetrie che consentono di unire i quattordici personaggi a due a due.
Ad esempio, la prima figura a sinistra appare corrispondente all’ultima di destra mentre la seconda, sempre a sinistra, corrisponde alla penultima a destra. Le prime due figure di sinistra rappresentano un uomo e una donna “religiosi” – ad esse corrispondono figure di morti o feriti; le altre figure mostrano invece stadi di un’ascensione progressiva, confluenti in una curiosa figura finale che appare come la perfetta unione di un uomo e di una donna in un unico corpo. Indubbia – e dunque notata da molti – è la somiglianza tra questa immagine e quella alchemica della res bis, la “cosa doppia”: il Rebis, come si dirà in seguito, che allegoricamente allude al compimento della “Grande Opera”.
Oltre alle molte coincidenze che, seguendo queste suggestioni, potrebbero essere rilevate tra il linguaggio dei Fedeli e quello del Neoplatonismo o dell’Ermetismo, le opere del gruppo devono essere confrontate internamente. Per questo accanto a Dante si è reso necessario ricorrere ad esempi tratti da altri autori come Cavalcanti, Cino da Pistoia, Guinizzelli e Francesco da Barberino.
Del resto, lo stesso Valli insiste sulla necessità – a suo avviso illuminante – di porre a confronto la canzone Se più non raggia il sol del Barberino con le rime petrose di Dante. Si tratta di una canzone che il Barberino inserisce in nota nella dodicesima parte dei Documenti. Indirizzata a «certi suoi amici gentili uomini di Toscana», è accompagnata da una curiosa illustrazione che mostra, a sinistra, la morte intenta a colpire con sei frecce, due delle quali raggiungono una donna che si accascia mentre, dietro di lei, il già citato Rebis appare spezzarsi.
Valli descrivere quest’immagine come il perfetto accompagnamento a una poesia stesa in un momento di grave pericolo per la setta dei Fedeli d’Amore: la morte ha trafitto l’Ordine e, se pur questo è salvo, tuttavia la perfezione iniziatica si è spezzata.
Va ricordato come la lettura del Valli sia assolutamente eterodossa non solo nelle conclusioni, bensì e sovente nell’analisi dei singoli elementi che corrono a favore della sua lettura.
Le rime petrose di Dante, ad esempio, sono generalmente interpretate come componimenti dedicati a una donna Petra – senhal per celare l’identità dell’amata. I versi si caratterizzano per un rovesciamento di taluni stilemi dello Stil Novo: vi è un’assoluta mancanza di idealizzazione della donna e l’amore assume tratti marcatamente carnali. Alla dolcezza si sostituiscono suoni aspri, rime insolite e una struttura sintattica ardita.
Influenza del trobar clus[20] o, come suggerisce Valli, un riferimento specifico alla Chiesa – pietra ostinata e dura a ricevere il “vero” Amore?
Si è già detto come pietra o sasso indichino, nel supposto gergo della setta, la Chiesa o la corruzione della stessa sui Fedeli. Dante dunque non scriverebbe canzoni d’amore bensì di odio, soprattutto se – volendo seguire le teorie di Valli – queste furono stese in concomitanza con l’inizio delle persecuzioni ai danni dei cavalieri Templari.
Così nel mio parlar voglio esser aspro
com’è ne li atti questa bella petra,
la quale ognora impetra
maggior durezza e più natura cruda,
e veste sua persona d’un diaspro
tal, che per lui, o perch’ella s’arretra,
non esce di faretra
saetta che già mai la colga ignuda:
ed ella ancide, e non val ch’om si chiuda
né si dilunghi da’ colpi mortali,
che, com’avesser ali,
giuncono altrui e spezzan ciascun’arme;
sì ch’io non so da lei né posso atarme.
Non trovo scudo ch’ella non mi spezzi
né loco che dal suo viso m’asconda;
ché, come fior di fronda,
così de la mia mente tien la cima:
cotanto del mio mal par che si prezzi,
quanto legno di mar che non lieva onda;
e ’l peso che m’affonda
è tal che non potrebbe adequar rima.
Ahi angosciosa e dispietata lima
che sordamente la mia vita scemi,
perché non ti ritemi
sì di rodermi il core a scorza a scorza,
com’io di dire altrui chi ti dà forza?
Ché più mi triema il cor qualora io penso
di lei in parte ov’altri li occhi induca,
per tema non traluca
lo mio penser di fuor sì che si scopra,
ch’io non fo de la morte, che ogni senso
co li denti d’Amor già mi manduca;
ciò è che ’l pensier bruca
la lor vertù sì che n’allenta l’opra.
E’ m’ha percosso in terra, e stammi sopra
con quella spada ond’elli ancise Dido,
Amore, a cui io grido
merzé chiamando, e umilmente il priego;
ed el d’ogni merzé par messo al niego.
Egli alza ad ora ad or la mano, e sfida
la debole mia vita, esto perverso,
che disteso a riverso
mi tiene in terra d’ogni guizzo stanco:
allor mi surgon ne la mente strida;
e ’l sangue, ch’è per le vene disperso,
fuggendo corre verso
lo cor, che ’l chiama; ond’io rimango bianco.
Elli mi fiede sotto il braccio manco
sì forte, che ’l dolor nel cor rimbalza:
allor dico: - S’elli alza
un’altra volta, Morte m’avrà chiuso
prima che ’l colpo sia disceso giuso.
Così vedess’io lui fender per mezzo
lo core a la crudele che ’l mio squatra!
poi non mi sarebb’atra
la morte, ov’io per sua bellezza corro:
ché tanto dà nel sol quanto nel rezzo
questa scherana micidiale e latra.
Ohmè, perché non latra
per me, com’io per lei, nel caldo borro?
ché tosto griderei: - Io vi soccorro".
e fare’l volentier, sì come quelli
che ne’ biondi capelli
ch’Amor per consumarmi increspa e dora
metterei mano, e piacere’le allora.
S’io avessi le belle trecce prese,
che fatte son per me scudiscio e ferza,
pigliandole anzi terza,
con esse passerei vespero e squille:
e non sarei pietoso né cortese,
anzi farei com’orso quando scherza;
e se Amor me ne sferza,
io mi vendicherei di più di mille.
Ancor ne li occhi, ond’escon le faville
che m’infiammano il cor, ch’io porto anciso,
guarderei presso e fiso,
per vendicar lo fuggir che mi face;
e poi le renderei con amor pace.
Canzon, vattene dritto a quella donna
che m’ha ferito il core e che m’invola
quello ond’io ho più gola,
e dàlle per lo cor d’una saetta;
ché bell’onor s’acquista in far vendetta.
Dante, Così nel mio parlar voglio esser aspro (XIII sec.)
Un particolare legame segreto tra il padre della lingua italiana e i Pauperes Commilitones è ciclicamente avanzato da numerosi studiosi di frangia e, in genere, si colloca all’interno del vastissimo mare di leggende collegate in modo più o meno diretto (e più o meno lecito) all’ordine dei Cavalieri del Tempio. Naturalmente, dalla connessione con i Templari ne scaturisce una (ancor più interessante) con la Massoneria.
L’appartenenza del Sommo Poeta all’organizzazione è materia dibattuta da diverso tempo e non fa la sua comparsa solo con le tesi dei citati Rossetti e Aroux.
Valli fa naturalmente appello alla ricorrenza del numero nove e soprattutto alla figura di San Bernardo che, nella Commedia, appare quale ultima guida del Poeta.
Bernardus Claravallensis è ritenuto uno dei Padri Spirituali dell’Ordine dei Cavalieri del Tempio e, intorno al 1135, ne aveva anche scritto un elogio, il De laude novae militiae ad Milites Templi.
Da un punto di vista teologico, Bernardo espresse una dottrina singolare, che in parte si distaccava da alcune diffuse opinioni del tempo per abbracciare l’idea di un rinnovamento umano, una risalita dalla condizione decaduta a quella del vero Figlio di Dio, attraverso la mediazione salvifica del Cristo e dell’Amore.
Il Santo di Chiaravalle ritiene vi siano quattro gradi dell’amore che, se percorsi con umiltà, conducono dall’Amore di sé all’Amore per Dio.
[…] il nostro amore cominci dalla carne. Se poi è diretto secondo un giusto ordine […] non viene prima lo spirituale, ma ciò che è animale precede ciò che è spirituale. […] Perciò prima l’uomo ama se stesso […], comincia a cercare Dio per mezzo della fede, come un essere necessario, e Lo ama.[21]
Un’idea, questa, che, seppur non influenzata dal neoplatonismo, non appare troppo distante da alcune convinzioni che avrebbero animato i Fedeli d’Amore – almeno, secondo le dette interpretazioni eterodosse.
Nella Commedia, il Santo appare presso la Candida Rosa dei Beati – rosa che, per Valli, è come già ampiamente illustrato, il simbolo della Sapienza a cui tende l’Iniziato.
[…] e volgeami con voglia rïaccesa
per domandar la mia donna di cose
di che la mente mia era sospesa.
Uno intendëa, e altro mi rispuose:
credea veder Beatrice e vidi un sene
vestito con le genti glorïose.
[…] E - Ov’ è ella? -, sùbito diss’ io.
Ond’ elli: - A terminar lo tuo disiro
mosse Beatrice me del loco mio;
e se riguardi sù nel terzo giro
dal sommo grado, tu la rivedrai
nel trono che suoi merti le sortiro.
Sanza risponder, li occhi sù levai,
e vidi lei che si facea corona
reflettendo da sé li etterni rai.
Da quella regïon che più sù tona
occhio mortale alcun tanto non dista,
qualunque in mare più giù s’abbandona,
quanto lì da Beatrice la mia vista;
ma nulla mi facea, ché süa effige
non discendëa a me per mezzo mista.
- O donna in cui la mia speranza vige,
e che soffristi per la mia salute
in inferno lasciar le tue vestige,
di tante cose quant’ i’ ho vedute,
dal tuo podere e da la tua bontate
riconosco la grazia e la virtute.
Tu m’hai di servo tratto a libertate
per tutte quelle vie, per tutt’ i modi
che di ciò fare avei la potestate.
La tua magnificenza in me custodi,
sì che l’anima mia, che fatt’ hai sana,
piacente a te dal corpo si disnodi.
Così orai; e quella, sì lontana
come parea, sorrise e riguardommi;
poi si tornò a l’etterna fontana.
Par., XXXI, vv. 55 ss.
Le tesi del Valli – che sostanzialmente riassumono in modo ordinato gli aspetti più convincenti di quelle formulate in precedenza – trovano ampia diffusione negli ambienti esoterici e, soprattutto, in quelli italiani. In linea di massima sono accolte con entusiasmo; in altri casi ne vengono criticati alcuni aspetti ma al fine di spingerli verso derive ancora più estreme: si considerino, a tal proposito, Julius Evola o Arturo Reghini:
[…] l’obiezione è che in Dante, nascosta sotto comprensibili cautele, è possibile reperire un’apologia dell’Aquila senza la Croce, un imperialismo non più cristiano ma pagano […]. Evola rivolge a Valli anche un’altra critica. Come iniziato, Dante avrebbe conosciuto anche un arcano sessuale di tipo tantrico e quindi la sua referenza a Beatrice, alla Donna, non sarebbe stata puramente simbolica ma avrebbe alluso nello stesso tempo a una pratica di magia sessuale.[22]
Le opere di tutti coloro che hanno voluto leggere in Dante una dichiarazione dottrinale non solo eterodossa ma persino eretica, di carattere misterico e iniziatico, sono tutt’ora un argomento piuttosto controverso. Anche Valli, che forse ha il merito di aver posto un certo ordine sistematico tra le suggestioni a lui precedenti, rimane oggetto di dubbia valutazione.
[…] la questione dell’eterodossia di Dante conosce una sorta di revival non solo perché si è riaccesa fra gli specialisti la discussione su alcuni aspetti del suo pensiero teologico, filosofico e politico che da sempre sono stati guardati con sospetto […]. Assistiamo anche al ciclico riemergere di interpretazioni esoteriche e iniziatico-settarie di Dante […]; Dante, come un seguace della setta dei Fedeli d’Amore, [è] pronto a servirsi del linguaggio della tradizione cortese, ma anche del gergo scolastico, per occultare una devozione alla causa imperiale che si alimentava a fonti pitagoriche e platoniche e anticipava motivi diffusi dai Rosacrociani e dai Massoni […]. La nozione di eterodossia infatti è stata, e a volte ancora oggi è declinata in una molteplicità di accezioni sin troppo ricca: abbiamo così il Dante affiliato ai Fedeli d’amore; il Dante gnostico, cataro, templare, rosacrociano e massone; il Dante ghibellino e socialisteggiante; il Dante gioachimita e apocalittico; il Dante sedotto dal misticismo esoterico di origine ebraica e islamica; infine il Dante razionalista, filosofo radicale che si sarebbe ispirato ad Avicenna e Averroè. La nozione di ortodossia, invece, è stata troppo spesso assunta come ovvia e ovvia la sua identificazione con un non meglio definito tomismo […]. Ma è lecito valutare oggi una controversia dottrinale del passato assumendo come metro di giudizio storico il punto di vista di una delle parti in causa? Il fatto che gli antichi commentatori della Commedia – incluso un anti-averroista accanito come Benvenuto da Imola – non videro alcun pericolo nelle formule dantesche «forma purett[a]» e «puro atto» non dovrebbe indurci a valutare più pacatamente la loro presunta pericolosità? Comunque si voglia rispondere, mi pare che se l’anacronismo, come ha insegnato Marc Bloch, è «il più imperdonabile» fra gli errori che uno storico può commettere, la sovra-interpretazione del testo è un errore perdonabile, ma che sarebbe bene evitare.[23]
Bibliografia
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Articoli e sitografia
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Lanza, F., voce «Pascoli, Giovanni» in Enciclopedia Dantesca (1970).
Patrizi, L., Dante e il sufismo in «Critica Italiana» (11 aprile 2019).
[1] In lingua originale: «Ad evidentiam itaque dicendorum, sciendum est quod istius operis non est simplex sensus, ymo dici potest polysemos, hoc est plurium sensuum; nam primus sensus est qui habetur per litteram, alius est qui habetur per significata per litteram. Et primus dicitur litteralis, secundus vero allegoricus, sive moralis, sive anagogicus. Qui modus tractandi, ut melius pateat, potest considerari in his versibus: In exitu Israel de Egypto, domus Iacob de populo barbaro, facta est Iudea sanctificatio eius, Israel potestas eius. Nam si ad litteram solam inspiciemus, significatur nobis exitus filiorum Israel de Egypto, tempore Moysi; si ad allegoriam, nobis significatur nostra redemptio facta per Christum; si ad moralem sensum, significatur nobis conversio anime de luctu et miseria peccati ad statum gratie; si ad anagogicum, significatur exitus anime sancte ab huius corruptionis servitute ad eterne glorie libertatem. Et quamquam isti sensus mystici variis appellentur nominibus, generaliter omnes dici possunt allegorici, cum sint a litterali sive historiali diversi. Nam allegoria dicitur ab “alleon” grece, quod in latinum dicitur “alienum”, sive “diversum”». Trad. a cura di M. A. Garavaglia.
[2] Inf., IX., vv. 61-63.
[3] Cfr. anche le dichiarazioni rese da M. Corti nel corso dell’intervista a cura della redazione di Rai Educational trasmessa il 20 aprile 2000.
[4] Ibid.
[5] Cfr. Corti, M., Percorsi dell’Invenzione: il linguaggio e Dante, Einaudi, Torino 1993.
[6] Intervista a Maria Corti; 20 aprile 2000, Maria Corti, l’Islam e Dante. Anche consultabile in:http://wwwjanuacoeli.blogspot.com/2011/01/maria-corti-lislam-e-dante-20-aprile.html
[7] Cfr. Asín Palacios, M., La escatología musulmana en la Divina Comedia, Imprenta de Estanislao Maestre, Madrid 1919.
[8] Patrizi, L., Dante e il sufismo in «Critica Italiana» (11 aprile 2019), consultabile a questo link: https://bit.ly/3aofwkW
[9] Cit. in Cesarini, R., voce «Aroux, Eugene» in Enciclopedia Dantesca (1970), consultabile su https://bit.ly/3p0qils
[10] Cfr. Lanza, F., voce «Pascoli, Giovanni» in Enciclopedia Dantesca (1970), consultabile su https://bit.ly/3qYN9jk
[11] Il suo giuramento iniziatico, del 1882 è stato reso noto fin dal 1962. Cfr. Raitano, M., Memoria di Giovanni Pascoli (1962).
[12] Introvigne, M., Luigi Valli e l’Esoterismo di Dante. Una figura cruciale per l’Esoterismo del Novecento riscoperta da Stefano Salzani in «CENSUR» (2014), consultabile su https://bit.ly/3noq6fL
[13] Valli, L., Il Linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore, 2 voll., Roma 1928-29, incipit.
[14] Foscolo, U., Discorso sul testo del poema di Dante (1825), Al lettore.
[15] Ivi, VIII.
[16] Ivi., XLII.
[17] Pascoli, G., La mirabile visione, in Vicinelli, A. (a cura di), Prose II. Scritti danteschi, II., Mondadori, Milano 1952, pp. 1228-1230.
[18] Seriacopi (a cura di); Valli, L., Il Linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore, FirenzeLibri, Reggello 2008. Presentazione del curatore, pp. VIII-IX.
[19] Ivi., p. 27.
[20] Un ritorno di Dante al trobar clus di Arnaut Daniel [N.d.A.]
[21] Bernardo di Chiaravalle, De Diligendo Deo, XIV.
[22] Cfr. Introvigne, M., Luigi Valli e l’Esoterismo di Dante [op. Cit.].
[23] Cfr. Bianchi, L., Dante eterodosso? Vecchie polemiche e nuove prospettive di ricerca (Theologus Dante. Tematiche teologiche nelle opere e nei primi commenti, a cura di Lombardo, L.; Parisi, D.; Pegoretti. A.) 2018, consultabile su: https://bit.ly/3nwphRX