Particolare della Chimera da un’anfora etrusca presso Vulci; 530 a.C.
Le Sirene nel mondo mitologico dell’antica Grecia: una sintesi.
Il tema della Sirena si rivela certamente ricco di fascino. Dall’antica Grecia fino ai giorni nostri, questa figura, da sempre concepita come un ibrido fra il mondo umano e quello animale, non cessa di creare suggestioni e farsi fucina dell’elaborazione di nuovi simbolismi a sostegno del processo creativo della nostra coscienza.
Nel costante mutare della relazione che intercorre fra la civiltà ed il mondo naturale, il tema della Sirena si è fatto ora portatore di valori mortiferi ed ora custode di suggestioni vitalizzanti. Ove la tensione fra ragione e istinto genera contrasto, la Sirena rappresenta l’apoteosi delle forze caotiche e selvatiche, entro le quali l’opera dell’Uomo non riesce a scorgere la possibilità di agire in senso razionale, secondo quella proiezione che vede la ragione elevarsi in senso superiore nei confronti di un mondo primevo e minaccioso.
Non solo nel mondo greco, come vedremo, la Sirena è dunque ambivalente e significativamente portatrice di quegli elementi collegati alla minaccia, al pericolo se non alla morte, la sua dimensione assomiglia a quella assunta dalla selva e dagli animali che la popolano nell’immaginario medievale: luogo non illuminato da quella ragione propria dell’Uomo quale creatura divina che dal potere ordinatore di Dio trae forza e senso.
Ove tale tensione si risolve, invece, nella ricerca di una compenetrazione, la Sirena assume su di sé la manifestazione di un universo valoriale rinnovato: non è più tempo di una lotta fra la dimensione umana e quella naturale e non vi è, nel caos, lo specchio del male che si allontana dalla tecnica e dalla ragione illuminata dal Divino. E’ tempo di unione e a questo allude sempre più l’ibrido esibito dalla contemporaneità: un’alleanza rinnovata fra la natura e ciò che ha preteso di prevalere sul corso naturale e necessario delle cose, creando divisione e facendosi infine mortifero.
Dall’immagine che nasce dalla congiunzione fra un volatile ed una donna, la Sirena si trasforma lentamente, a partire dal VII secolo, in un essere metà donna e metà pesce e se l’iconografia stenta, fino all’inizio del Basso Medioevo, ad abbandonare la forma originaria di questa creatura fantastica, infine la sua nuova rappresentazione si impone più tenacemente all’immaginario collettivo moderno e contemporaneo. E’ forse determinante, in questo, anche l’elemento squisitamente estetico, che più si esalta nella prosecuzione delle morbide forme femminile nella coda agile di un pesce, facendo della Sirena una creatura dotata innanzitutto di inusuale bellezza, sia essa pura che foriera di un pericolo nascosto. In questa versione certamente più romantica della Sirena, la spontanea repulsione per il mostruoso lascia spazio alla tenerezza suscitata anche dalla sensualità e l’orrore cede alla meraviglia: elementi entrambi ben presenti nella celeberrima, tragica narrazione Den lille Havfrue del danese Hans Christian Andersen a sua volta ispirata dall’Undine di Friederich de la Motte Pouqué, basato sulle suggestioni del folklore germanico.
Le radici occidentali di questa figura sono certamente da ricercarsi entro l’ampio panorama offerto dalle narrazioni del mito greco, ove – per altro – animali ibridi e creature singolari abbondano. In esse è sempre l’elemento più prossimo al mondo mortale o ctonio a prevalere: se la creatura è figlia di un Dio e di un mortale, sarà la componente umana a prevalere e se l’unione contempla l’elemento umano e quello bestiale, sarà quest’ultimo a determinare il carattere e la funzione della creatura.
Così, ad esempio, l’eroe Eracle che è figlio di Zeus e Alcmena, si presenta come creatura mortale, in odio ad Hera ed il prevalere della sua componente numinosa sarà un traguardo, ricercato tramite le prove e infine raggiunto mediante l’Apoteosi.
Anche il Minotauro segue la medesima sorte: nato dall’incontro fra Pasifae ed un toro possiede un corpo ibrido e la sua funzione, nel mito, è quella di un essere spietato, indomabile, che è necessario nutrire con ciclici sacrifici di giovani Ateniesi.
“Minosse (…)sacrificando a Poseidone, pregò che un toro apparisse dalle profondità del mare e promise di sacrificarlo al suo apparire. E Poseidone gli mandò uno splendido toro. Così Minosse ricevette il comando, ma mandò il toro a le sue mandrie e ne sacrificò un altro (…) Poseidone era arrabbiato perché il toro non era stato sacrificato e lo fece impazzire. Inoltre proclamò che Pasifae avrebbe dovuto sviluppare una passione per esso (…) Pasifae diede alla luce Asterios che fu chiamato Minotauro. Aveva la faccia di un toro, ma per il resto era umano. Minosse, seguendo alcune istruzioni oracolari, lo tenne confinato e sorvegliato nel labirinto. Questo labirinto, costruito da Daidalos, era una “gabbia con flessioni contorte che disordinano lo sbocco”.[1]
Simbolo massimo del disordine e del pericolo sono quelle creature che mostrano ibridazioni con più animali. Valga a titolo d’esempio la Chimera: “(…) una cosa di fattura immortale, non umana, con la fronte di leone e il serpente dietro, una capra in mezzo, e sbuffando l'alito della terribile fiamma di fuoco splendente”.[2]
“(…) la Chimera che sbuffava fuoco furioso, una bestia grande e terribile, forte e dai piedi veloci. Le sue teste erano tre: una era quella di un leone dagli occhi abbaglianti, una di una capra, e il terzo di un serpente”. [3]
A sconfiggere quest’essere terribile è l’eroe Bellerofonte aiutato da un’altra creatura eccezionale, Pegaso, un cavallo che possiede le ali: in questo caso, la prospettiva valoriale appare rovesciata e nel cavallo prevale una componente benefica seppur potentemente selvatica (è infatti assai difficile domarlo). Pegaso svolge anche un ruolo di primo piano nella lotta di Bellerofonte contro la Chimera: presso Corinto, Bellerofonte trascorre una notte nel tempio di Athena che gli dona le briglie d'oro per catturare il cavallo alato e con esso affrontare il temibile mostruo. L’eroe lo sconfigge ma, approfittando delle ali della cavalcatura cerca di spingersi verso i cieli più alti: forse disarcionato dallo stesso Pegaso, precipita.[4]
Il tema della Sirena nell’antica Grecia va dunque e innanzitutto collocato entro quest’ampio panorama offerto da un mito che chiama in causa la presenza di molti animali ibridi e creature bizzarre, quasi sempre interpretati in senso caotico, selvatico e mortifero. Qual è dunque la rappresentazione specifica della Sirena? Perché si chiama così e, soprattutto, com’è presentata questa curiosa creatura dalle narrazioni mitologiche?
La Sirena è un essere che s’incontra sporadicamente nel mito greco e la sua presenza non risulta particolarmente importante o determinante. Può, come vedremo, costituire uno dei vari pericoli che un eroe deve affrontare oppure essere invocata quale abitatrice della casa di Ade o psicopompa frequentatrice delle anime dei defunti.
Come si accennava in apertura, la Sirena è caratterizzata dall’essere in parte umana ed in parte creatura alata. Ciò che dunque arriva a noi, dalle testimonianze letterarie e iconografiche, è appunto un ibrido che, come nei citati casi del Minotauro o della Chimera, o come nei casi delle Gorgoni o ancora di Scilla, possiede una connotazione fortemente ambivalente se non decisamente mortifera.
Nell’ambito del mito greco, le creature dall’aspetto ibrido sono violente e temibili anche perché rappresentano, di volta in volta, la proiezione di pericoli naturali o addirittura sono il risultato di elementi propri di culti precedenti abbandonati o soppiantati da culti successivi; talvolta la loro mostruosità implica il giudizio su popolazioni lontane, “diverse” e quindi immaginate come intatte dal processo di civilizzazione. Nel caso specifico della Sirena, però, l’aspetto sicuramente negativo e la contemporanea associazione al mondo ctonio e marino (in entrambi i casi, si tratta di associazioni frequenti per gli elementi caotici), si accompagna, all’interno delle fonti, anche ad alcuni curiosi aspetti positivi.
Il termine Σειρῆνες è ampiamente discusso. Si è tentato un confronto con il termine σειρά, considerando l’analogia fra la “corda”, appunto, e l’atto della “legatura” operato dalla sirena che, come vedremo, tramite la sua musica ipnotizza.[5] Ma vi è chi ha invece inteso collegare questa parola al nome della stella Sirio – Σείριος – in riferimento all’idea che le Sirene e la loro apparizione potesse legarsi alla stagione estiva e dunque alla costellazione del Cane. Di tutt’altro avviso sono quelle teorie che si concentrano invece sul rapporto fra il termine sirena e la radice verbale *gher-, con il significato di “desiderare”.[6] Per Schrader, il termine invece si deve alla radice indoeuropea che allude al verbo “risuonare”.[7]
Se la ricostruzione del termine si presenta, per ora, piuttosto ostica, più semplice è l’osservazione delle tracce letterarie e iconografiche relative a questa figura, presente – come noto - a partire dall’Odissea nel ruolo di una insidiosa tentatrice, capace di lusingare la propria vittima secondo quanto più potrebbe tentarla.
Per questa sua caratteristica, l’eroe Odisseo, costretto a vincerne gli inganni per proseguire il proprio viaggio di ritorno in Itaca, elabora uno stratagemma che gli consenta di ascoltare il suono ammaliatore di queste creature senza caderne vittima: tapperà le orecchie dei propri compagni con della cera ammorbidita e quindi si farà legare strettamente all’albero maestro della nave:
“…e intanto il ben costrutto naviglio era all’isola giunto
delle Sirene, in brev’ora: ché il vento spirava propizio.
Ma, giunti qui, la brezza cessò, fu bonaccia sul mare,
senza piú soffio di vento, sopir fece un dèmone i flutti,
(…)
Con l’affilata spada di bronzo un gran disco di cera
allora io sminuzzai, la plasmai (…) ai miei compagni le orecchie rempiei.
Essi le mani allora mi strinsero insieme ed i piedi;
poscia, con funi, a ridosso mi strinser dell’albero; ed essi,
seduti ai banchi, il mare spumoso battevan coi remi.
(…) le Sirene videro il legno
che s’accostava; e la voce canora spiegarono al canto:
Vieni qui dunque, Ulisse famoso, fulgor degli Achivi:
ferma la nave, ché udire tu possa la nostra canzone:
poi che nessuno passò qui oltre col cerulo legno,
pria che dal nostro labbro udisse il mellifluo canto:
lieto chi l’ode, e ricco di molta scienza poi parte:
poi che sappiamo tutto, sappiam (…)
Questo, levando la voce soave, dicevano; e il cuore
mi si struggeva di brama, coi cigli imponevo ai compagni
che mi sciogliesser dai lacci; ma quelli sforzavano i remi”.[8]
La voce delle Sirene è Φθόγγοs: termine, piuttosto complesso da analizzare, probabilmente da intendersi correttamente secondo la volontà di porre l’accento sulla modalità di ricezione del suono (quindi secondo le qualità acustico-percettive del suono).[9]
Abbiamo poi ἀοιδή - Il termine emerge quando Odisseo è messo in guardia circa il pericolo che lo attende: è lo stesso termine che, in Apollonio Rodio caratterizza il canto prodigioso di Orfeo.
Omero enfatizza inoltre il potere mantico delle Sirene, le quali tutto conoscono, creando così un quadro già ben definito del loro status: si tratta di creature estremamente insidiose, che colpiscono mediante l’emissione di suoni capaci di sovrastare il volere dei mortali e che si fanno portatrici di un sapere che va oltre quello umano.
L’associazione fra un modo particolare di emettere voce e il potere mantico non è solo delle Sirene, anche la Pizia emetteva i suoi oracoli impiegando una particolare declinazione della voce, probabilmente “salmodiando” e, certamente, per coloro che si rivolgevano al Santuario di Delfi non era la vista della Sacerdotessa ad essere elemento fondamentale bensì l’ascolto delle sue sentenze e della modalità in cui erano proferite.[10]
La più antica testimonianza relativa al suono della voce emesso dalla Pizia si deve a Pindaro,[11]che parla, ad esempio, di κέλαδος - termine che indica il rumore, come il pianto di un neonato, il fruscio del vento, il suono delle acque dei fiumi e che nel caso specifico indica una voce alta e sonante - e αὐδή (che in Omero è un termine riferito anche alla voce di Circe e Calipso). Si usa poi il verbo αὐδάω, che ricollegato ad ἀείδω[12] serve per indicare l’enunciazione del vaticino, pronunciato quindi con voce armoniosa.
Simile, probabilmente, è anche il suono che dalle sirene colpisce l’udito della vittima prescelta: la voce è armoniosa e modulata, forte.
“Πρῶτά νυν Ὀρφῆος μνησώμεθα, τόν ῥά ποτ’ αὐτὴ
Καλλιόπη Θρήικι φατίζεται εὐνηθεῖσα
Οἰάγρῳ σκοπιῆς Πιμπληίδος ἄγχι τεκέσθαι.
αὐτὰρ τόνγ’ ἐνέπουσιν ἀτειρέας οὔρεσι πέτρας
θέλξαι ἀοιδάων ἐνοπῇ ποταμῶν τε ῥέεθρα”. [13]
E quindi:
“Σειρῆνας μὲν πρῶτον ἀφίξεαι, αἵ ῥά τε πάντας
ἀνθρώπους θέλγουσιν, ὅτίς σφεας εἰσαφίκηται.
ὅς τις ἀϊδρείῃ πελάσῃ καὶ φθόγγον ἀκούσῃ
Σειρήνων, τῷ δ' οὔ τι γυνὴ καὶ νήπια τέκνα
οἴκαδε νοστήσαντι παρίσταται οὐδὲ γάνυνται,
ἀλλά τε Σειρῆνες λιγυρῇ θέλγουσιν ἀοιδῇ,
ἥμεναι ἐν λειμῶνι· πολὺς δ' ἀμφ' ὀστεόφιν θὶς
ἀνδρῶν πυθομένων, περὶ δὲ ῥινοὶ μινύθουσιν”.[14]
La voce delle Sirene è poi qualificata nelle fonti anche con gli aggettivi λιγύς e λιγυρός [15] che indicano, nuovamente, un suono limpido e acuto, forte e penetrante…un dato – come vedremo - concorde con quanto ci è noto anche in merito ai lamenti funebri accompagnati dall’aulo: queste considerazioni le riprenderemo a breve in relazione all’associazione fra le Sirene e la casa di Hades.
Delle Sirene conosciamo dunque e innanzitutto l’effetto “sonoro” prodotto sulle vittime ammaliate. Un effetto declinato innanzitutto e prevalentemente in senso negativo e schiettamente mortifero: un simile potere, tutto concentrato sul dato uditivo, è difficile da sconfiggere (Odisseo non annienta il suono delle Sirene, vi resiste in quanto legato saldamente dai compagni) a meno che non vi si sovrapponga qualcosa di simile come, ad esempio, un altro suono. Così avviene, infatti: le Sirene sono vinte quando le fonti ci mostrano l’intervento del cantore Orfeo e della sua lyra.
Già “famoso” ai tempi di Ibico, Simonide, come noto, lo immagina quale ammaliatore capace di agire sugli animali e gli elementi della natura: “E infiniti / volavano uccelli sopra il suo capo, / e alti fuori dall’onda azzurra / balzavano i pesci al bel canto” e quindi, così, Pindaro nella Pitica IV – “Da Apollo giunse poi il maestro di lira, padre / dei canti, Orfeo molto lodato”.
Dell’episodio specifico nel quale Orfeo si misura con le Sirene ci parla il già citato Apollonio Rodio,[16] dopo averci fornito una serie di informazioni sulla stessa genesi di questi esseri metà umani e metà volatili:
“La bella Tersicore, una delle Muse, le aveva generate
dopo essersi unita all'Acheloo; un tempo erano ancelle
della potente figlia di Deò, quando ancora era vergine,
e cantavano insieme con lei: ma ora apparivano in parte
simili a fanciulle nel corpo e in parte ad uccelli.
Sempre appostate su una rupe munita di buoni approdi,
avevano privato moltissimi uomini della gioia del ritorno
(…) ma il Tracio Orfeo, figlio di Eagro, tendendo la cetra
(…) fece risuonare le note allegre
di una canzone dal ritmo veloce, affinché il suono
sovrapposto della sua musica rimbombasse nelle loro
orecchie. La cetra vinse la voce delle fanciulle: Zefiro
e insieme le onde sospinsero
la nave, e il loro canto si fece un suono indistinto”.
Si tratta, per altro, dello stesso episodio che costituisce la prima fonte iconografica della figura di Orfeo, così immortalato in una metopa del Tesoro dei Sicioni a Delfi: un cantore – identificato dalla iscrizione Orphàs – a bordo della nave Argo sta suonando la lyra.
Più avanti, nel XX canto, nel corso della notte che precede la gara che stabilirà le nuove nozze di Penelope, la signora di Itaca è colta in un pianto di sconforto e, rivolta ad Artemide una accorata preghiera, chiede di essere ghermita e portata lontano, in una metafora di morte. Una interessante associazione fra un lamento e l’intervento di creature alate e ghermitrici che si può forse collegare al più celebre pianto di Elena messo in scena da Euripide.
Menelao è forse morto e Leda si è impiccata; il nuovo sovrano Teoclimeno risulta difficile da gestire dopo la morte di Proteo: Elena, supplice, è presso la sua tomba… nella parodo amebea dell’Elena di Euripide (vv. 164-252) la protagonista, disperata, invoca le alate Sirene:
“Ahi! Alate fanciulle, vergini della Terra figlie, Sirene, ai miei gemiti
vogliate venire, recando l’aulo libico, le siringhe e le lire, lacrime concordi ai
miei lutti, patimenti ai patimenti, canti ai canti; Persefone mandi questi cori
funesti consoni ai miei canti luttuosi, perché in ringraziamento, oltre alle lacrime,
da me riceva nelle sue dimore notturne un peana per i morti uccisi”
Elena sta pregando le Sirene di volare presso di lei:[17] “l’obiettivo dell’invocazione è stato bene messo in evidenza, pur con diverse sfumature, da studiosi di musica antica che in tempi recenti si sono occupati di questi versi. Si tratta di potenziare, garantendone l’arrivo in Ade, l’efficacia del lamento intonato da Elena per i morti provocati dai fatti troiani, con la richiesta alle vergini di un accompagnamento musicale canoro”.[18] Questo sarà accompagnato da strumenti musicali.
Euripide scrive che le Sirene giungeranno alla donna per volere di Persefone, che è regina della casa di Hades ove quindi parrebbero trovarsi anche le alate fanciulle invocate da Elena. Tuttavia è anche possibile che la Dea si muova verso la loro sede, che è individuata in modo incerto fin dall’antichità. O forse, il lamento delle Sirene potrebbe salire al mondo dei vivi direttamente dalle sedi dell’Oltretomba.
La loro azione si configura, comunque, secondo un modello di aiuto e quindi secondo una sfumatura che seppur ctonia e infera è di fatto positiva e ci porta piuttosto lontano dall’immagine omerica, con la quale abbiamo aperto questo intervento. Non si tratta più di ammaliatrici mortali che uccidono gli incauti,“ipnotizzandoli” col suono emesso dalla loro voce e dai loro strumenti ma di compagne di lamento, accompagnatrici del regno della Morte. Questo dato ha per altro un interessante riscontro iconografico, soprattutto in età classica, in relazione a figurazioni tombali e ci si chiede se (dal vicino oriente?) si possa ricostruire un filo che si snoda fino alla sirena greca quale operatrice dell’Aldilà in quanto essere capace di placare i defunti in virtù del potere specifico del suono emesso dalla voce o dagli strumenti. Si tratta di una considerazione che ci riporta al citato Orfeo il quale, nel corso della catabasi, ammansisce le creature inferi grazie alla lyra e ottiene i favori del dio Hades avendo cantato per lui.
Licofrone[19] parla di Sirene che suonano e non si limitano a cantare: la prima e la terza (quando le sirene sono tre, appunto, e non due) , in particolare, si dedicano alla lyra (o alla cetra) ed al flauto. Del resto, se, come appunto ritengono Licofrone e Apollonio Rodio, esse discendono da Tersicore, è piuttosto naturale che si realizzi una sorta di fusione con le Muse.
In particolare è possibile pensare che le Sirene siano state concepite anche come una sorta di suplicato infernale delle Muse, che con i loro strumenti ed il loro canto accompagnano, placandole, le anime nel loro viaggio oltre la vita.[20]Plutarco non esita a confondere Sirene e Muse…[21]
L’associazione propria delle Sirene con le leggi dell’Aldilà appare, del resto, anche in Sofocle[22] che le indica, per altro,[23] come parenti delle Gorgoni e di altri esseri mostruosi.
Anche Platone le colloca nella casa di Hades[24] Ma, nella loro ambiguità, esse appaiono anche come amiche dell’anima che erra dopo la morte nell’atmosfera.[25]
Le Sirene, sempre secondo Omero, erano due: il poeta, infatti, impiega il duale, che trova conferma in attestazioni iconografiche vascolari - “gli artigiani riprodussero più volte l'episodio senza aver presente il testo numerico, tuttavia è credibile che le parole del poeta risuonassero le loro orecchie pur in maniera imprecisa e approssimativa”. [26] Probabilmente, anche l’aspetto delle sirene era ampiamente noto, tanto che Omero, in genere prodigo nelle descrizioni degli esseri fantastici, non si sofferma su questo specifico elemento.
Corinna Zaffarana
Bibliografia
B. Candida, Tradizione figurativa nel mito di Ulisse e le Sirene in: Studi Classici e Orientali, V.19/20 (1970-71), pp.212-253, Pisa University Press.
D. Fermi, Elena in lamento. Motivi e funzioni dell’appello alle Sirene in Eur.Hel. 164-178 in: Studi Italiani di Filologia classica, CXIII annata, IV serie, V. XVIII, fasc. I
P. Laspia, Omero linguista, voce e voce articolata nell’enciclopedia omerica, Casa Editrice Novecento;1961, p.19 ss.
C. Pisano, La voce della Pizia: tra mito,rito e antropologia in: Quaderni del ramo d’Oro, 2013.
J.R.T. Pollard, Muses and Sirens, in: CIRev, LXVI; 1952.
H. Schrader, Die Sirenen, nach ihrer Bedeutung und kunstlerischen Darstellung im
[1] Apollod. Bibl. 3. 8 - 11
[2] Hom. Il. VI. 179 ss.
[3] Hes. Theog. 319 ss.
[4] Per approfondimenti cf. anche Hes. Theog. 325; Apollod. III. 3. 2.
[5] Carnoy, DEMGR; Hofmann, Et. Wört. Gr.; Weicker, Roscher, Myth. Lex. IV col. 602
[6] Cf. DEMGR, s.v.
[7] H. Schrader, Die Sirenen, nach ihrer Bedeutung und kunstlerischen Darstellung im Alterthum; 1868.
[8] Hom. Od. XII, 164-194 trad. E. Romagnoli
[9] Cf. P. Laspia, Omero linguista, voce e voce articolata nell’enciclopedia omerica,Casa Editrice Novecento;1961, p.19 ss.
[10] Cf. C. Pisano, La voce della Pizia: tra mito,rito e antropologia in: Quaderni del ramo d’Oro, 2013.
[11] Pind. Pyth. 4. 60-63
[12] Chantraine, Dictionnaire étymologique, s.v.
[13] A.R. Arg. I.27.
[14] Hom. Od. XII, 39-46.
[15] Ex: Od. XII 44; Argon. Orph. 1268
[16] Ap. Rh. IV. 890-912 trad. A. Borgogno.
[17] In Egitto.
[18] D. Fermi, Elena in lamento. Motivi e funzioni dell’appello alle Sirene in Eur.Hel. 164-178 in: Studi Italiani di Filologia classica, CXIII annata, IV serie, V. XVIII, fasc. I
[19] Lycophr. Alex. 712. Cf Apoll. Rhod. Arg. IV, 891 ss. - Apollod. Epitome, VII, 18
[20] J.R.T. Pollard, Muses and Sirens, in CIRev, LXVI; 1952.
[21] Plut. Quaest. Conv. IX, 6
[22] Soph. Fr.861
[23] Impiegando il duale.
[24] Plat. Crat. 403 d.
[25] Plat. De rep. X, 617 b
[26] B. Candida, Tradizione figurativa nel mito di Ulisse e le Sirene in: Studi Classici e Orientali, V.19/20 (1970-71), pp.212-253, Pisa University Press.
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Vediamo alcune interessanti attestazioni iconografiche a partire dagli askoi in bronzo rinvenuti a Le Murgie di Strongoli e nella chora meridionale.
Si tratta verosimilmente di un prodotto locale e non d’importazione: un primo askos in bronzo databile alla metà del VI a.C. che mostra la sirena con le ali chiuse. La parte femminili mostra l’influsso laconico nel pendente e nel polos. Potrebbe trattarsi di un ex-voto da ricollegare al non lontano Santuario (Località Manca della Vozza) probabilmente dedicato ad una divinità femminile agricola.
Il secondo askos deriva da un contesto funerario, cioè verosimilmente da un corredo funerario. La sirena ha le ali chiuse e due braccia, poste correttamente secondo l’anatomia umana: sorregge una melagrana che ha un evidente richiamo di carattere ctonio.
In questo stamnos a f.r. databile al 460 a.C. nuovamente le sirene sono tre. Non hanno braccia umane ma ali spiegate. Una, a destra, osserva la scena mentre la sua compagna sembra gettarsi sui compagni di Odisseo, intenti a remare. Al centro vi è l’eroe legato al palo mentre la rappresentazione riporta l’osservatore nell’area in alto a destra, ove una terza Sirena spiega le ali come se volesse unirsi al volo. Non hanno strumenti musicali, né – a differenza di altre raffigurazioni – sembrano portare gioielli ma la testa è adorna dello sphendone – una sorta di piccola sciarpa che copriva la parte inferiore dello chignon. Interessantissima infine è la testimonianza iconografica di un Cratere a campana lucano, 340-320 a.C, conservato al Antiquarium Staatliche Museen di Berlino, in cui si vedono le Sirene associate al τύμπανον, strumento associato ai culti estatici di Dioniso e in seguito di Cibele ma pur presente in contesti funebri o legati a canti funerari.